Al netto delle forzose trovate felliniane, interessante, ma discontinuo / 15 Settembre 2021 in Stanno tutti bene

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Affiancato alla sceneggiatura da Tonino Guerra (e Massimo De Rita), con Stanno tutti bene, Tornatore gioca la carta felliniana, inserendo passaggi onirici nel racconto di un viaggio attraverso l’Italia (con tanto di tappa a Rimini) che è anche percorso interiore, nella memoria e nelle paure del protagonista, l’anziano Matteo (Marcello Mastroianni, guarda caso – o no?- a lungo, alter ego cinematografico di Fellini).

Il risultato è discontinuo e informe, anche a causa di vari dettagli surreali che si impongono forzatamente sul film (il mondo che si ferma, quando Matteo parla con la segreteria telefonica dell’irraggiungibile figlio Alvaro; il cervo in autostrada; i piccioni nella Fontana di Trevi; Trinità dei Monti raffigurata su un telone; la comitiva di pensionati sul pullman; la spiaggia riminese in inverno). A questo proposito, mi sono sembrate molto più centrate soluzioni come quelle dei figli eternamente bambini, la scena della spiaggia in Sicilia (con la medusa volante che porta via i ragazzini) e quella della salina (benché il concetto del marito partorito dalla moglie venga buttato un po’ via).
Insomma, l’idea e l’uso del sogno, qui, sembrano funzionare solo quando si rapportano in maniera estremamente diretta a Matteo: il resto sembrano vezzi mal rappresentati.

L’elemento del film che ho apprezzato di più è la definizione del personaggio di Mastroianni, un uomo che, naturalmente (cioè, per sua natura), sembra poter vivere (e morire) solo di segreti. Matteo è un uomo “vecchio stampo”, fiero di una vita da impiegato statale, sufficientemente colto, profondamente provinciale.
è convinto di aver cresciuto figli retti e felici, ma, con l’avanzare del film, si scopre che la sua progenie è stata sgridata, battuta e inascoltata e, benché Matteo si vanti di avere una famiglia solida e amorevole, i suoi figli hanno sempre avuto un rapporto superficiale con il padre, temendone le reazioni. Matteo ha caricato su di loro aspettative personali che essi, probabilmente, non avevano nessuna intenzione di soddisfare, ma che hanno assecondato, crecendo in un clima di soggiacente tensione. Matteo ha finito col plasmare individui insicuri, irrisolti, solitari, depressi e, come lui, bugiardi “a fin di bene”.
Apparentemente, il personaggio di Mastroianni è un vecchio simpatico verso cui sembra semplice indulgere (gli occhiali a fondo di bottiglia che ne deformano lo sguardo in maniera buffa contribuiscono a questo effetto). Con il procedere del film, al netto delle stramberie oniriche di cui sopra, Matteo si rivela essere un uomo mediocre, senza particolari virtù, se non quella -se tale si può definire- di aver preso coscienza dei propri fallimenti.
Penso che il suo incubo ricorrente, in cui i figli bambini gli vengono portati via, sia dovuto proprio a tale consapevolezza: più o meno consciamente, il protagonista vorrebbe tornare indietro nel tempo e rimediare ai propri errori, fatti e ribaditi con ogni ragazzino, in un momento preciso e -evidentemente- cruciale della sua formazione (credo che sia per questo motivo che i bimbi sembrano tutti coetanei fra loro, intorno ai 9-10 anni, anche se, ovviamente, fra ciascuno di essi, esistono inevitabili differenze fisiche che, però, qui, sembrano non esistere).

Tolti Mastroianni e Michèle Morgan (la signora conosciuta sul treno), cast da dimenticare e tentate critiche al mondo della moda/dell’Arte/del lavoro/della famiglia “moderna” su cui soprassedere.

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