Talvolta, è difficile rendersi conto di quante tracce lasciamo lungo la via, di quanto e come, in maniera spesso impercettibile, segniamo i luoghi e le persone con cui entriamo in contatto. Non si tratta di “semplice” antropizzazione: ciò che facciamo, le nostre interazioni con cose e persone, costruiscono la memoria, personale e condivisa.
La percezione che abbiamo di noi e degli altri e quella che gli altri hanno di sé e di noi muta a seconda delle prospettive, ma è innegabile che entrare in contatto con qualcuno o qualcosa, anche se per un breve attimo, può alterare il corso della “storia”.
In questo film, attraverso la figura del mite, scrupoloso ed estremamente solitario Mr. May (l’appropriato Eddie Marsan, già volto del cinema di Leigh e Loach), Pasolini (Uberto) dimostra che qualsiasi esistenza, anche quella apparentemente più anonima ed incolore, ha consistenza e volume e spinge e modella più o meno silenziosamente, in maniera positiva o meno, quelle con cui si relaziona.
Per quanto, spesso, la cosa possa non balzare subito agli occhi, anche la persona più solitaria del mondo non può essere considerata una monade a tutti gli effetti: la solitudine è un fatto acquisito, frutto di scelte o imposizioni nate nel tempo. Il trascorso di ognuno, se non l’immediato presente, di cui non si ha istantanea percezione, è un solco, un segno.
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