Prima di Downton Abbey / 22 Gennaio 2019 in Upstairs, Downstairs

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Prima di Downton Abbey c’era questo, Upstairs, downstairs (impropriamente reso in italiano come “Su e giù per le scale”, traduzione che fa perdere totalmente la separazione tra i due mondi – upstairs, il piano di sopra, che è quello padronale, e downstairs, il piano di sotto, adibito alla servitù – che entrano giocoforza a contatto), capostipite dimenticato e che, fortunatamente, ho avuto modo di recuperare.
Sceneggiato d’altri tempi, questo qui, come – dicono – se ne facevano anche qui da noi prima che, evidentemente, RaiFiction decidesse che il pubblico fosse dicotomicamente diviso tra lo spettatore di TopCrime e quello di RaiYoyo. Ma vabbe’, questa digressione meglio chiuderla. Per essere un prodotto degli anni ’70 la qualità è alta, l’immersione nel Regno Unito del primo trentennio del XX secolo (arco di tempo in cui il mondo si è rivoluzionato, con la fine effettiva dell’età vittoriana, mutamenti sociali e una guerra mondiale di mezzo) attraverso le vicende della famiglia di Mr Bellamy, parlamentare Tory dalla spesso traballante sicurezza finanziaria, e della danarosa e nobile moglie Lady Marjorie, è ben riuscita, senza le ipocrisie, il didascalismo, i buonismi e gli “anacronismi etici” presenti in prodotti analoghi più recenti, pur addentrandosi con coraggio nelle trasformazioni e nei contasti di quegli anni (l’insofferenza ribelle della camerierina Sarah al dover essere solo una serva, lei che aspira alla realizzazione personale e all’indipendenza; le battaglie delle suffragette, sostenute dalla secondogenita Bellamy, Elizabeth; l’ascesa di una nuova middle class parallela al declino della vecchia classe dirigente, rappresentata dal rampollo di famiglia, James, che oltre all’aver sposato una donna di ceto inferiore diventa il primo dei Bellamy a darsi al commercio quando la vita di rendita diviene non più sostenibile, ma anche dall’affarista e arrampicatore sociale Karekin con cui i Bellamy hanno a che fare tramite Elizabeth; i traumi subiti dai reduci della Grande Guerra che tornano a casa pieni di incubi, come il giovanissimo cameriere – e poi chauffeur – Edward; gli scioperi, le lotte per i diritti e la crisi sociale post-bellica, con la fine dell’alternanza politica Tory-Liberal e l’ascesa dei Labour – e qui rientra la sconfitta elettorale di James che, nel primo dopoguerra, perde la corsa al seggio parlamentare lasciato libero dal padre; la nascita e lo sviluppo del cinematografo e dei sogni di gloria di chi, ultimo nella scala sociale, sogna la svolta della vita davanti a una cinepresa, come il cameriere Frederick che molla tutto per seguire una ricca milady mecenate intenzionata a renderlo il nuovo Rodolfo Valentino; la gioventù upper class – incarnata da Georgina – che, in guizzi radical chic ante litteram, vuol rompere con la rigidità ottocentesca dei predecessori; l’entrata della modernità come nella vita della gente così in casa Bellamy, dove la carrozza lascia il passo all’automobile, e dove fanno la loro comparsa diavolerie moderne come il campanello elettrico, la radio, ecc – che può sembrare poco, ma non è così) e toccando, sorprendentemente, argomenti scomodi per quei tempi – i primi anni ’70 – e per i nostri tempi (gravidanze extramatrimoniali, omosessualità, infedeltà coniugale, xenofobia, classismo – il tutto pur sempre, in certa parte, entro una visione coerente con il contesto storico). La narrazione si adegua di volta in volta al contesto storico, dalla spensieratezza delle belle époque alla drammaticità della Grande Guerra (molto interessante proprio questa parte, in cui i due mondi “upstairs” e “downstairs” si trovano a vivere le stesse tragedie, le stesse paure, le stesse ristrettezze) e alla cupezza e incertezza degli anni della Depressione.
A differenza del più recente Downton, in cui il torbido si aggira perlopiù tra la servitù mentre la famiglia patronale è grossomodo indenne da macchie esecrabili, qui le sfumature di bianco e nero sono diffuse un po’ tra tutti i personaggi in modo più realistico. Non mancano, ovviamente, i domestici devoti alla famiglia patronale senza condizioni, sinceramente affezionati ai Bellamy (spiccano il maggiordomo Mr Hudson e la cuoca Mrs Bridges, soprattutto, sempre in feeling tra loro e teneramente – ma castamente – legati, bonariamente burberi, tradizionalisti e perfettamente a loro agio nella stratificazione sociale vigente, e che del prestigio dei Bellamy ne fanno un vanto personale, o anche la fedele e assennata capocameriera Rose) ma ci son pure quelli che sono a lì a servizio solo per avere un tetto sulla testa e del pane sotto i denti, così come quelli intenzionati ad approfittare dei datori di lavoro. E così i membri della famiglia Bellamy, fondamentalmente di buon cuore ed onesti, senza malignità, pregiudizi ed eccessivo snobismo, inclini al perdono e bendisposti, rispettosi dei sottoposti e a cui sono affezionati (li si sente spesso definire ora questo, ora quel domestico, “di famiglia” – particolarmente Mr Hudson, Rose e Mrs Bridges, lo zoccolo duro del personale), ma non privi delle loro umane meschinità più o meno gravi (Lady Marjorie sembra l’ancella del focolare ma cede momentaneamente alla passione di un giovanotto; Mr Bellamy è uomo integerrimo eppure non esita a sfruttare un’illecita “soffiata” per ottenere un grosso guadagno in Borsa, così come non ha problemi a tentare di liquidare in modo sbrigativo le conseguenze della condotta dei figli quando possono ledere il suo buon nome e il suo credito politico; James, debole di personalità, insicuro ed eternamente all’ombra del padre, cede più volte alla carne allacciando una relazione con una cameriera della casa fino ad ingravidarla per poi declinare ogni responsabilità – codice rosso per la polizia #meetoo – e ha una sconveniente passione platonica per la “cugina acquisita” Georgina sia prima che dopo le nozze; Elizabeth, moderna sebbene viziata, che si sposa per capriccio, ha una bambina da un altro uomo, diventa la compagna more uxorio di un terzo pur essendo ancora sposata e infine, ormai divorziata, se ne va in USA).
Non mancano l’introspezione psicologica dei personaggi tutti ben caratterizzati e tridimensionali, i silenzi, l’espressività facciale di chi è in scena che, spesso, grazie ad un cast di altissima qualità, riesce a far intendere anche col non detto, quando occorre, e in modo efficace.
E passiamo ora ai giudizi.
La serie si articola in cinque stagioni. Le prime tre stagioni scorrono piacevolmente, le dinamiche sono interessanti, allegria e dramma si alternano e incrociano adeguatamente, ci si affeziona facilmente ai personaggi (alcuni personaggi) e se tutto può moltissime volte sembrare già-visto-già-sentito è solo perché è da qui che hanno attinto i successori, quindi più che un difetto lo si può prendere come un pregio l’effetto déjà vu. Davvero una piacevole scoperta. Voto 7.
Le ultime due invece, sia a causa di un corposo recasting che di scelte narrative poco felici (magari figlie proprio del recasting forzato), risultano più lente, ripetitive, addirittura noiose a certi tratti. Non all’altezza delle aspettative, peccato. Voto 6-

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